In linea generale:

  •  un inadempimento datoriale non legittima automaticamente il rifiuto della prestazione da parte del lavoratore;
  • per considerarsi legittimo il rifiuto del lavoratore non deve essere contrario al principio di buona fede, tenuto conto delle circostanze del caso specifico (Cassazione n. 10227/2023).

Una delle ragioni che possono motivare il rifiuto del lavoratore a di eseguire la prestazione lavoratore è rappresentata dal pregiudizio che può conseguirne al suo stato di salute.

In un caso del genere, la verifica sulla legittimità del rifiuto del lavoratore presuppone il bilanciamento del suo dovere di fedeltà e di diligenza e del suo diritto alla salute.

Un esempio può riguardare le prescrizioni di cui al Testo Unico sulla Sicurezza nel luogo di lavoro (d.lgs. n. 81/2008): art. 18 (il datore di lavoro deve garantire la sicurezza, la formazione e l’informazione dei lavoratori dipendenti); art. 20 (i lavoratori devono rispettare le norme di sicurezza e collaborare attivamente alla prevenzione).

In proposito, assumono importanza i limiti entro cui il lavoratore possa legittimamente svolgere verifiche autonome sulla sicurezza nel luogo di lavoro, in base alle quali poi decidere di rifiutare di eseguire l'attività lavorativa richiesta.

Di recente la Corte di Cassazione (n. 24562/2025) ha affermato il principio secondo cui i possibili accertamenti effettuati autonomamente da un dipendente – anche se per tutelare la propria salute e sicurezza sul luogo di lavoro – devono essere avviati nel rispetto delle regole stabilite dal datore di lavoro, se esistenti, come previsto dal comma 1 dell’art. 20 del d.lgs. n. 81/2008 secondo cui: "Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro"; ciò tenendo conto che, in relazione al contesto di riferimento, il comportamento del lavoratore può avere ricadute anche sull’esecuzione della prestazione dei colleghi.

In particolare, la Cassazione ha affrontato il caso in cui l'infermiere rifiutava di svolgere la prestazione in favore di un paziente (al quale dovevano essere somministrati farmaci salvavita) poiché affetto da un’infezione simile al Covid. I'infermiere - che aveva prima effettuato una ricerca in internet utilizzando il proprio telefono cellulare - riteneva che non vi fossero adeguati mezzi apprestati dal datore a garanzia della sua salute. Inoltre, il dipendente aveva riferito l’esito della sua indagine ad altri colleghi. Tuttavia, il Regolamento di Servizio in azienda vietava espressamente l'uso del telefono cellulare in servizio, pertanto - esclusa l’ipotesi di malfunzionamento dei sistemi telefonici interni - la condotta del lavoratore è stata ritenuta rilevante disciplinarmente, in quanto aveva divulgato informazioni acquisite illegittimamente. La Cassazione, condividendo il giudizio della Corte d'Appello, ha escluso “che l’infermiere professionale inserito in una struttura possa, senza interloquire con il superiore (caposala) e il personale medico, che in ogni caso, sovrintende alla corretta gestione dei protocolli (che si basano in ogni caso su letteratura scientifica), affermare autonomamente l’esistenza di una oggettiva condizione di pericolosità da contagio” (Cass. n. 24562/2025).

Un'altra ragione che può motivare il rifiuto della prestazione da parte del lavoratore dipendente è l'ordine datoriale ritenuto illegittimo, perchè ad esempio il lavoratore lo ritenga contrastante con una norma di legge o di contratto collettivo.

In questa ipotesi la verifica sulla legittimità del rifiuto non potrà prescindere dalla primaria considerazione del potere direttivo ed organizzativo concesso al datore di lavoro, in virtù del quale il lavoratore dipendente è tenuto a eseguire le disposizioni ricevute dall’imprenditore o dai suoi delegati (art. 2104 cod. civ.).

Il rifiuto di eseguire l'ordine deve essere motivato da una concreta illegittimità e non da una mera percezione soggettiva di ingiustizia, poiché il rifiuto sproporzionato può rappresentare insubordinazione e giustificare un provvedimento disciplinare, quale licenziamento, dato che al rapporto lavorativo non è applicabile l’art. 51 del codice penale (che esclude la punibilità di chi esegue un ordine illegittimo) in assenza di un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, riconosciuto dalla legge al superiore (Corte Appello Milano n. 336/2025; ance Cassazione n. 1582/2019).


L'Avv. Giuseppe Caristena si distingue per la sua profonda conoscenza del diritto del lavoro, offrendo consulenza ed assistenza di alto livello a tutela dei diritti dei lavoratori e dei datori di lavoro.