Il Tribunale di Trani, sezione lavoro, con sentenza n. 2025 del 13/10/2025 ha ribadito un principio affermato in materia di impugnazione dell'accordo di conciliazione stipulato in sede sindacale, cd. sede protetta.

Nel caso specifico, il Giudice riscontrava che l'accordo conciliativo presentava tutti i requisiti previsti dalla legge ai fini della sua validità, con conseguente inoppugnabilità da parte della lavoratrice, che lo aveva sottoscritto.
A tal proposito, ai sensi dell’art. 2113 cod. civ., “le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide” e possono essere impugnate, a pena di decadenza, entro 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.
Tuttavia, c'è un'eccezione a tale regola. Infatti, l’ultimo comma dell'articolo 2113 cod. civ. stabilisce che tale regola non si applica alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater c.p.c. (tra cui quella in sede sindacale, appunto).

Quindi, la conciliazione in sede sindacale ex art. 411, comma 3, c.p.c., è in linea generale inoppugnabile, in quanto la legge considera che questa sia stata sottoscritta in una “sede protetta”, in grado di garantire l’esistenza di una volontà effettiva, in capo alla parte contraente più debole, in ordine alla conclusione dell’accordo.
Esiste però un'ipotesi in cui, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di Cassazione (v. sentenza n. 24024 del 23/10/2013), è possibile impugnare l'accordo conciliativo in sede sindacale: "le rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione sindacale, non sono impugnabili ex art. 2113, commi 2 e 3, cod. civ., solo a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentati sindacali sia stata effettiva, consentendo al lavoratore di sapere a quale diritto rinunzia ed in che misura, e, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto si evinca la “res dubia” oggetto della lite (in atto o potenziale) e le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 c.c.".
Dunque, perché la conciliazione ex art. 411 c.p.c. possa essere impugnata, la parte che ne ha interesse deve dimostrare la mancanza di un’effettiva assistenza sindacale e la mancanza di reciproche concessioni, che sono tipiche di un accordo transattivo.

A tal riguardo, secondo l’autorevole orientamento della giurisprudenza di Cassazione, ai fini dell’effettività dell’assistenza sindacale, “si ritiene sufficiente (…) l’idoneità dello stesso rappresentante sindacale a prestare in sede conciliativa l’assistenza prevista dalla legge; posto che la compresenza del predetto e dello stesso lavoratore al momento della conciliazione lascia presumere l’adeguata assistenza del primo, chiamato a detto fine a prestare opera di conciliatore (…) in assenza di alcuna tempestiva deduzione né prova che il rappresentante sindacale, pur presente, non abbia prestato assistenza di sorta” (Cassazione ordinanza n. 16154/2021).
Si consideri, inoltre, che l’assistenza in sede sindacale ha lo scopo di mettere pienamente al corrente il lavoratore in ordine alle conseguenze delle proprie rinunce.

E ancora, la giurisprudenza di Cassazione ha chiarito che “la reciprocità delle concessioni, necessaria alla qualificazione come atto di transazione dell’accordo tra lavoratore e datore di lavoro, deve poi essere intesa in correlazione alle pretese contestazioni delle parti, non in relazione ai diritti effettivamente a ciascuna spettanti” (Cassazione ordinanza n. 16154/2021).


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